Civic hacking: toc, toc è permesso?
Nell’ultimo post mi ero lasciato con una domanda aperta sull’evoluzione del termine “civic hacking” in Italia:
“cosa emerge dal modo in cui evolve la definizione nel tempo? Quali sono le differenze e le sfumature che si possono cogliere?”
Inizio a rispondere - almeno parzialmente - alla domanda dalla parte più semplice, osservando la concentrazione delle notizie lungo la linea temporale, tra il 2010 e il 2017.
Una breve premessa: i numeri delle notizie elencate sono molto bassi, si parla di un massimo di 8 per un anno, per cui le considerazioni che seguono non hanno alcuna valenza statistica, ma sono un’interpretazione personale di qualcosa che ho vissuto. Prendetele quindi per quello che sono.
Lungo la linea temporale ci sono un paio di momenti di maggior concentrazione di notizie relative al civic hacking:
- la seconda parte del 2010 fino all’inizio del 2011: per chi non lo sapesse, è utile ricordare che la comunità di Spaghetti Open Data nasce tra fine agosto e settembre 2010 e in quelle stesse settimane il libro di Alberto Cottica “Wikicrazia” viene pubblicato;
- all’inizio del 2013 e la fine dell’anno, fino ai primi 6 mesi del 2014. A gennaio 2013 c’è stato il primo raduno della comunità di Spaghetti Open Data e l’entusiasmo che si diffonde nella comunità fornisce quel slancio utile alla nascita di alcuni progetti di civic hacking, tra cui quello di TwitAntonio.
Se invece si osservano i periodi con meno citazioni (il 2012 e da metà 2014 a metà 2015 e il 2016), mi vengono in mente altre cose da appuntarsi.
Il 2015 è stato l’anno principale di attività dell’associazione Digital Champions (che nasce nella seconda metà del 2014, per chiudere ad inizio 2016). Un anno che ha visto moltissime persone (che di fatto erano dei civic hackers) confluire nelle attività a supporto delle azioni di governo di quella fase storica. Riccardo Luna viene nominato Digital Champion per l’Italia a settembre 2014: questo titolo è una carica istituzionale voluta dalla Commissione Europea che ogni Stato membro nomina in autonomia. L’associazione diventa inevitabilmente un elemento fortemente connesso con la direzione intrapresa dall’agenda digitale governativa. Nel 2015, quindi, ritroviamo il termine “civic hacking” all’interno di alcuni eventi legati alle attività dell’associazione.
Nel giugno 2015 Franco Morelli (civic hacker, socio dell’associazione Digital Champions e una delle persone che partecipano alla comunità di Spaghetti Open Data) pubblica una presentazione in SlideShare dal titolo emblematico “Civic hacking in equilibrio”. La possiamo considerare un punto critico che rappresenta un momento di maturità, dove si evidenziano alcuni concetti in contrapposizione:
- Chiedere permesso - Entrare comunque
- Andare alle feste - Starsene in disparte
- Creare - Osservare
- Locale - Globale
- Imparare - Insegnare
La mancanza di citazioni nel 2016 si potrebbe interpretare come una sorta di fase riflessiva: una risposta fisiologica alla stagione del 2015, caratterizzata dalla collaborazione e partecipazione ad alcune azioni nate dalle istituzioni, la fase dei Digital Champions.
Potremmo riconoscere quindi tre momenti:
- 2010 - 2014: fase iniziale di entusiasmo, dove immaginiamo che tutto sia possibile;
- 2014 - 2015: fase di collaborazione con le istituzioni;
- 2016: fase di riflessione, in cui ci si ferma per capire a che punto siamo, quale impatto e quale ruolo è davvero rimasto dopo le esperienze della seconda fase.
Non è detto che la terza fase sia stata percepita in maniera esplicita: potrebbe essere stata vissuta come momento di stallo, individuale e di comunità, specie se ha avuto una sensazione di tradimento.
Il 2016 è anche l’anno del lancio ufficiale della scuola di tecnologie civiche (civic tech), con due diverse edizioni (maggio 2016 a Torino e novembre 2016 a Napoli): civic tech e civic hacking hanno ovviamente molto in comune, in futuro mi piacerebbe riflettere sul legame tra civic tech e civic hacking, ma per il momento mi concentrerò sul secondo.
A metà 2016 la situazione dell’emergenza a valle del terremoto crea le condizioni per la nascita del progetto TerremotoCentroItalia, che rappresenta un punto di svolta progettuale nel percorso evolutivo del termine, dopo quello concettuale evidenziato da Franco Morelli un anno prima.
Civic hacking e civic hacker
Esiste una questione sintattica che fino ad ora non ho evidenziato: parlare di civic hacking è diverso che raccontare le storie sui civic hacker.
Infatti si può parlare dell’azione, del fare “civic hacking”, oppure si può scegliere di parlare degli eroi, delle persone, ovvero dei civic hacker.
Due approcci profondamente diversi, che comportano delle conseguenze nel tipo di presenza nei media (intervistare un civic hacker è più facile di raccontare un’azione di civc hacking). La scelta di concentrarsi di più sugli eroi del nostro tempo e meno sulle pratiche ha (forse) generato maggior interesse (più visite per le testate giornalistiche online) rispetto ad articoli focalizzati sulle pratiche, che avrebbero condotto a riflessioni più complesse destinate ad un pubblico assai più ristretto.
Ecco perché non ho incluso riferimenti alle citazioni di quelle notizie che parlavano solamente dei civic hacker (fatta eccezione per la chiamata alle armi di Matteo Tempestini di novembre 2016): quello che volevo evidenziare è cosa accade attorno all’azione, non tanto quello che può fare il singolo, spesso vittima suo malgrado del grande storytelling sull’innovazione di questi ultimi anni.
Civic hacking: toc,toc è permesso?
Completata l’analisi temporale, passiamo alla semantica: come viene spiegato il “civic hacking” nel corso degli anni?
La diffusione del termine “civic hacking” sembra vada di pari passo a quella di “Open Data”, anche se viene usato molto meno di frequente: le comunità principali che fanno proprie queste terminologie diventano praticamente le stesse.
Non si tratta solo di questo: pare che uno degli obiettivi del civic hacking sia direttamente collegato all’uso degli Open Data. Dalle definizioni del periodo 2010-2011 una delle finalità principali del civic hacking è aumentare la fruibilità e l’utilità degli Open Data pubblicati dalle amministrazioni, integrandoli e creando dei servizi a valore aggiunto al di sopra di essi.
Una linea di pensiero che si coniuga molto bene con le differenze di approccio tra i servizi progettati dalla visione dell’E-government e quella visione alternativa del “Government as a platform” condivisa da Tim O’Reilly a metà del 2009. Al posto di creare servizi digitali per i cittadini (E-government) che sono mal progettati e poco usati, che usano tecnologie vecchie che non pongono l’utente al centro perché figlie di progettazioni nate dall’alto al basso, nasce l’idea che lo Stato possa essere una piattaforma a disposizione della società. L’ente pubblico e lo Stato fa un passo indietro rispetto al potenziale presente là fuori, in pieno stile liberista.
Lo Stato non espone più servizi, ma dati: pubblica i dati nella loro versione più grezza e semplice possibile e lascia al mercato la creazione dei servizi a valore aggiunto per i cittadini. Lo Stato diventa un livello infrastrutturale che abilita nuovi attori che riutilizzano in maniera creativa quel famoso patrimonio informativo pubblico che il digitale è in grado di valorizzare come mai prima d’ora.
Ma esiste un grande ma.
Un elemento ben presente nelle citazioni presenti nel 2010 e via via assume meno enfasi nel corso degli anni. Un elemento con cui Franco Morelli apre le sue slide mostrate poco sopra.
Sto parlando del non dover chiedere a nessuno il permesso di fare qualcosa, quel famoso e dirompente “innovation without permission”, che si ritrova sempre meno più si avvicina al 2017, tranne qualche ripresa di fine 2015.
Riprendo la citazione di Catherine Bracy sul significato del civic hacking pubblicata nel post precedente: “L’hacking è una qualsiasi innovazione amatoriale su un sistema esistente, ed è un’attività profondamente democratica. Si tratta di pensiero critico. Si tratta di mettere in discussione il modo comune di fare le cose. È l’idea che si vede un problema, si lavora per sistemarlo, e non ci si lamenta soltanto.”
Quello che sembra emergere negli anni a cavallo del 2012-2015 è un percorso di avvicinamento e quasi di reclutamento dei civic hacker da parte delle istituzioni italiane, che iniziano a comprendere il potenziale di riuso di conoscenze e di capitale sociale di quelle comunità legate al mondo Open Data, anche grazie alle azioni correlate alla visione dell’Open Government.
La componente dirompente, quella davvero scomoda che è sempre fuori controllo, pare passare in secondo piano.
Se chiediamo innovazione solo a partire da dati che la PA sta già mettendo a disposizione e non partiamo invece da quelli scomodi e difficili che ancora non ci sono, diventa tutto un percorso guidato e ben delimitato quello che ci si trova davanti. Parrebbe quasi una corsa al ribasso per la creazione di servizi dal potenziale elevato al costo quasi zero, se pensassimo male.
Pur essendo consapevoli della scala totalmente diversa e del numero assai limitato degli attori coinvolti nel panorama italiano, mi domando se a livello internazionale ci sia stato un percorso simile.
Stiamo (ancora) chiedendo il permesso?
Nell’agosto del 2015 Mark Headd, ex Chief Data Officer di Philadelphia ed oggi Innovation Specialist all’interno della mitica 18F, ha scritto un approfondimento dal titolo “The civic hacker hacked“.
Headd pone l’attenzione su quello che definisce la “gentrificazione dello spirito hacking“ all’interno del movimento civic hacking negli Stati Uniti, ponendosi delle domande aperte. Trae spunto da un gran bel pezzo di Bret Scott che approfondisce l’evoluzione e la riqualificazione della contro-cultura del movimento hacker delle origini e applica il medesimo ragionamento al civic hacking.
Nel fare questo contestualizza il civic hacking come una forma contemporanea di volontariato e di attivismo civico, al pari di potenziale bacino di partenza per l’assunzione di nuove persone ben motivate all’interno dell’apparato governativo.
There is much to be gained by building bridges between the world of civic hacking and government. There is a long history of volunteerism to help government in this country, of which civic hacking can be viewed as a contemporary extension. Engaged civic hackers can help build solutions that help governments deliver services more effectively, and increasingly the civic hacking community has been looked at as fertile ground for recruiting new government employees.
Se all’inizio l’azione sovversiva è inevitabile, quando l’attore istituzionale si accorge del potenziale e si appropria di certe dinamiche invitando direttamente all’azione quelle comunità, non è certo un male. Ma il grande ma rimane. Perché questo è solo un pezzetto di un quadro assai più ampio. Di qualcosa che dovrebbe rimanere, accettato sia dai civic hacker che dalle istituzioni.
Quella forma mentis sovversiva non deve essere soppressa, non deve passare in secondo piano e non deve essere interpretata come una posizione politica. Perché lo Stato e il suo ruolo va oltre (o almeno dovrebbe) la mera creazione del consenso di un determinato colore politico attivo in quel preciso momento storico.
Questa contaminazione e la sorta di appiattimento verso il basso dell’ideale sovversivo della cultura hacker pone questioni profonde.
But is there a risk that the civic hacking community will become gentrified? Has it already become so? Do civic hacking groups that work regularly and closely with government officials feel empowered to ask tough, direct (often uncomfortable) questions about data releases and procurement practices? Do groups that collaborate regularly with government feel that they have standing to hold public officials’ feet to the fire when needed?
How do we balance the relationship between civic hackers and governments in a way that can realize the potential benefits of “government as a platform” and that is also true to the subversive roots of civic hacking?
Come lavorare per mantenere entrambe le facce della medaglia?
L’esperimento dei Digital Champions del 2015 ci può raccontare molto di quello da non fare (probabilmente), ma contemporaneamente va sradicata l’idea che il civic hacking all’italiana sia lavoro gratuito che dovrebbe sopperire le croniche mancanze del pubblico.
Che ne dite?